© piero_fittipaldi
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Berlino - Judiske Museum. 2007.
È il Museo Ebraico progettato da Daniel Libeskind, una struttura che ripercorre 2 millenni di storia ebraica dove a "raccontare" non è quanto esposto. O non solo quello.
L'edificio irregolare, il Museo, è al tempo stesso "contenitore" ed emblema dell'incontro
della cultura ebraica e di quella tedesca, nel bene e nel male indissolubilmente legate
nel corso secoli. Grandi sale vuote, siderali e silenti, fenditure che lacerano le spesse
pareti di cemento, blocchi che si ergono dal pavimento, elementi di una potenza
espressiva che mai si sarebbe creduto possibile in strutture architettoniche, eppure è così.
Un'esperienza che annichilisce e cambia per sempre la concezione di Museo,
al cui interno tutto sembra amplificare la sensazione di piccolezza rispetto alla storia, ai
suoi avvenimenti, al suo divenire.
Ma a lasciare senza parole è anche altro.
In particolare una piccola sala rettangolare al primo piano.
È la Sala in cui è esposta "Shalechet" (foglie cadute), installazione dell'artista Menashe
Kadishman. Voltato un angolo del Museo ci si imbatte contro: una distesa di dischi di
ferro che coprono l'intero pavimento. Una marea di piastre grezze che rivelano fessure che rivelano lineamenti che rivelano visi. E bocche. Miriadi di bocche aperte e congelate in un urlo silenzioso. Inquietante.
Migliaia di facce a bocca aperta, come migliaia di vittime dei genocidi passati, presenti, futuri, caduti come foglie al vento, e come tali calpestate.
Perchè è questo che invita a fare Kadishman: bisogna calpestare le facce percorrendo il
breve corridoio cieco su cui sono riversate, e ripetere i propri passi per uscire.
Calpestare e poi calpestare ancora.
Non è la sensazione di calpestare uomini e donne spiazzare.
È possente, ma non è quella.
E non è neanche la claustrofobica pressione di un peso impossibile da sorreggere, tantomeno da capire, ancora una volta quello della storia.
È il rumore, è quello. Annichilisce.
Un clangore che esplode ad ogni passo e che le pareti rimandano in un eco deforme e
stridulo. Un grido, ecco cos'è. Un verso metallico urlato dalle facce che cozzano le une
contro le altre. e per quanto i piedi cerchino di calpestarle con delicatezza, il rumore del
dolore è assordante e accompagna sino all'uscita dall'installazione.
Quando l'eco cessa di rimbombare tra le mura e continua a farlo nella testa.
Una metafora universale. Immensa. Devastante.